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Un giovane uomo porta una bandiera, forse più grande di lui. Accanto a sé, i compagni. Orgoglioso di stare in prima fila, allo stesso tempo sembra sovrastato, schiacciato dal compito. Renzo Donazzon è nato in una famiglia di mezzadri al confine tra Veneto e Friuli, è diventato comunista da ragazzino, si è fatto le ossa da operaio nelle piccole fabbriche del territorio, prima di entrare alla Zoppas di Conegliano. Il ’69 lo trasforma in un leader sindacale e da quel momento sale tutti i gradini della Cgil fino a diventare, tra il 1988 e il 1992, segretario regionale del Veneto. Poi succede qualcosa e torna a fare il sindacalista in periferia. Pochi anni dopo muore in seguito a un incidente stradale, senza lasciare scritto nulla di sé. Se l’elezione di Renzo a segretario regionale rappresenta il culmine di un ciclo di mobilità sociale delle classi popolari, la sua rimozione esprime il crollo di un’utopia: l’idea che gli operai possano diventare classe dirigente. Renzo Donazzon è un working-class hero, mandato avanti dal basso, da una comunità di pari, ma anche risucchiato dall’alto, dai dirigenti del sindacato e del partito che lo selezionano, lo allevano, gli fanno coraggio, per poi metterlo da parte.